Valerio Bispuri: Yo soy calabrese
VALERIO BISPURI è nato a Roma. Laureato in lettere presso l’Università “La Sapienza”. Fotoreporter professionista dal 2001, collabora con numerose riviste italiane e straniere. Per dieci si è occupato di un lungo progetto sulle carceri del Sudamerica. Un viaggio che lo ha portato ha visitare 74 prigioni di tutti i paesi del continente sudamericano. Un reportage che è stato esposto al Visa pour l’Image a Perpignan nel 2011 e i numerose luoghi in Italia e all’estero.
Numerosi sono i premi vinti: il Sony World Photography Awards 2013, il premio del pubblico al Days Japan Award 2013, il Poy Editing Magazine nel 2014 e il Poy latinoamericano 2011 (menzione speciale). Finalista di nuovo al Sony nel 2016. Nel 2015 ha terminato un progetto durato 13 anni per denunciare la diffusione del consumo di Paco, una droga a basso costo che sta uccidendo migliaia di adolescenti e bambini nei sobborghi delle metropoli sudamericane. Paco sarà nel 2016 in mostra sempre Visa pour l’Image a Perpignan. Sempre nel 2015 è uscito il libro Encerrados per la casa editrice Contrasto che racconta il lungo lavoro compiuto nelle carceri Sudamericane. Da un anno sta lavorando a un progetto sulle carceri italiane.
“Yo soy calabrese, anche se vivo qui da settant’anni. Sono arrivato che ne avevo sette, con mio padre, mia madre y mis dos hermanos”. Mario ha il viso tempestato di rughe e parla un idioma misto: nei decenni, l’enorme immigrazione italiana ha creato un vera e propria lingua, il lunfardo, un italo-spagnolo con parole che non esistono né in italiano né in spagnolo.
La comunità calabrese in Argentina è una delle più importanti del paese e una grossa fetta di Buenos Aires è fatta da loro, emigrati quando l’Italia del sud era in una situazione di povertà assoluta. I primi calabresi arrivarono nel 1876 ma la prima ondata è durata fino al 1931: l’Argentina rappresentava per loro il paese delle possibilità. Attraversarono l’oceano, impiegando anche mesi e portando con sé pezzi di Calabria, tradizioni, modi di vivere che servivano loro per non recidere completamente il legame con la loro terra. All’asado argentino si univa così la ’nduja; i santi tradizionali venivano e vengono ancora celebrati con grandi riunioni e processioni. Un’altra grande ondata si è avuta dopo la seconda guerra mondiale, ma in effetti non si è mai fermato il flusso migratorio verso l’Argentina, una terra per alcuni aspetti simile alla Calabria, nella sua capacità di accogliere fraternamente, come in una grande famiglia, nuovi apporti sociali e culturali.
I calabresi di Buenos Aires hanno sempre mantenuto i simboli della propria identità non solo regionale ma cittadina, identificandosi nel proprio santo o nella propria santa e incontrandosi ancora oggi in circoli dedicati alle singole città d’origine: a Buenos Aires ce ne sono vari, da Cosenza a Reggio Calabria a Corigliano.
In tanti anni vissuti a Buenos Aires, sono entrato in contatto con molti emigranti italiani, e soprattutto calabresi, spesso persone che non sono più tornate in Italia, nella loro città o nel loro paese, ma ricordano strade e odori che oggi sono scomparsi. Sullo Costanera Sud, proprio vicino allo sfavillante quartiere di Puerto Madero, ogni mattina si riuniscono un gruppo di calabresi pensionati, chiacchierano, bevono mate e passano le loro giornate parlando di ricordi. Nella festa calabrese che come ogni aprile si tiene nell’Avenida de Mayo, Antonio mi mostra la foto di sua madre contadina in Calabria e per un attimo gli si bagnano gli occhi. Vicente, novantenne, bacia sua moglie Clara di ottantaquattro anni: sono sposati da sessantacinque, hanno vissuto sempre insieme dalla Calabria a Buenos Aires. I volti dei calabresi di Baires sono sospesi tra passato e presente, tra ricordi e speranze, ogni ruga ha due anime, si potrebbe dire, e porta con sé la traccia di una Calabria che non esiste più e di un paese che ha saputo accoglierli permettendogli di lasciar pulsare la vena sottile della nostalgia. La decadenza di Buenos Aires ha saputo accompagnare i ricordi dei calabresi senza snaturarli ma anzi conservandoli. “Nunca termino de ser calabrese“, Non smetto mai di essere calabrese”, ribadisce Mario mentre si allontana.