Corigliano Calabro Fotografia di Francesca Viscone
Fotografare significa scrivere con la luce. Ma che cos’è, in realtà, la fotografia? Riproduzione fedele della realtà, si disse al suo sorgere. E qualcuno scrisse che finalmente i pittori sarebbero stati liberati dal dovere di dipingere il mondo così com’era. Avrebbero potuto, ora, mostrarlo come lo vedevano, interpretarlo, inventarlo, trasfigurarlo. A coglierlo nella sua verità oggettiva ci avrebbero pensato gli altri, i fotografi. Ma non ci volle molto tempo per rendersi conto che l’occhio del fotografo, come quello del pittore, era più importante della scatola nera o dei pennelli. Guardare il mondo e vederlo non è la stessa cosa. E un vero artista della camera oscura rivela frammenti di senso impercettibili ai più. L’oggettività, insomma, non esiste, e la fotografia è arte magica perché con uno strano intruglio di creatività, fantasia e tecnica, rovescia tutto ciò che è ovvio, coglie ed esalta i contrasti, rende vivo nella materia l’immaginario. Ci impone verità innegabili là dove preferiremmo rimuoverle. È testimonianza, ma anche interpretazione. Verità, ma anche trasfigurazione.
Da sei anni al festival «Corigliano Calabro Fotografia» decine di artisti di fama mondiale mettono in mostra i loro racconti, straordinarie trame di luce e ombra. E in numerosi workshops gratuiti incontrano professionisti e amatori. È il festival delle grandi emozioni quello che è riuscito a portare in Calabria, da sempre periferia dell’impero, il meglio di un’arte divenuta di massa e per questo forse, oggi, ancora meno compresa e meno conosciuta che in passato.
Cosmo Laera, che con Gaetano Gianzi cura le mostre, è convinto che l’era dell’imagine globale sia ormai finita. C’è un forte bisogno di identità, scrive, di riconoscibilità del sociale e del paesaggio. Così «l’identità del Sud si lascia ritrarre solo da chi riesce a guardarla in profondità». Ed è il Sud del mondo il centro degli interrogativi e della ricerca di molti artisti. Chi cerca la foto bella e comoda, un sostituibile pezzo d’arredamento, insomma, rischia di vedere crollare le proprie certezze. Qui domina l’interrogativo, il dubbio sul nostro destino di uomini e su quello del pianeta, l’inquietudine di chi sa che andiamo incontro al rischio di una sconfitta planetaria. Eppure, le immagini sono emozionanti e belle, ma di quella bellezza intelligente e lucida che non sa nascondere né nascondersi dietro facili consolazioni.
Come ad ogni edizione del festival, anche quest’anno è stato affidato ad un artista il compito di “leggere” il territorio. Il ligure Mario Cresci, noto per «La terra inquieta» e per «Basilicata. Immagini di un paesaggio imprevisto» (entrambi Laterza) si muove dal disegno all’installazione, alla fotografia. La sua esplorazione del linguaggio visivo tende a conciliare il disegno industriale con la passione antropologica. A Corigliano ha realizzato «Oleum», un’analisi felice dello spazio naturale e industriale occupato dai tronchi secolari, dai vecchi frantoi e dai più moderni oleifici. «Oleum», racconta Cresci, è «una metafora moderna dell’Agorà greca perché intorno a questa materia vitale si è spalmata la storia dell’uomo e con essa ho pensato che le mie fotografie non erano altro che dei “prelievi d’affezione” di una cultura antica impossibile da dimenticare». Cresci intende la fotografia come incontro tra uomo, natura e materia, come comprensione, resistenza «allo strapotere politico ed economico che soffoca il respiro». Gli alberi emergono dalle foto come divinità forti ed eterne, veri spiriti che proteggono le case e la terra, che trasmettono serenità e pace, e offrono una ricchezza senza ingiustizia, l’unica uguale per tutti.
Tanti gli artisti presenti. Elena Givone lavora tra Amsterdam e Torino ma è impegnata anche in un progetto in Brasile sugli usi della fotografia. Nel 2007 ha partecipato al festival con alcune immagini di Sarajevo. I palazzi delle città mitragliate si elevavano imperiosi dietro i giochi dei bambini: l’innocenza colpita ma anche la voglia di gioco e di normalità. La Givone arrivava direttamene da Amsterdam, clima fresco e vita intensa, in una Corigliano sconvolta dal fuoco della scorsa estate. Rimane folgorata dal forte contrasto tra i due mondi e decide di fotografare le conseguenze degli incendi. Nasce così la sua mostra, «Paradiso perduto». Un reportage estremo, che cura ogni particolare esaltando la nitidezza e la profondità di campo grazie alla tecnica fotografica e al tipo di macchina «a banco ottico». Un lavoro lento, pensato, l’esatto contrario della foto «scatta e fuggi». Le pellicole si inseriscono una ad una, la macchina poggia rigorosamente su un cavalletto, la «bolla», una sorta di livella da muratore, gioca un ruolo essenziale poiché consente di raddrizzare le linee cadenti e allineare l’orizzonte. Un lavoro di grande impegno tecnico, ma affascinante, romantico. La fotografa si china “dentro” la macchina, intenta a scrutare le immagini, coperta da un panno nero per evitare che la luce bruci se stessa, ormai definitivamente catturata e impressa. Gli alberi arsi, i tronchi spezzati, l’erba verde che ricomincia a crescere tra arbusti trasformati in carbone sono ammonimento e sconfitta. Ma la terra sa come rinascere: grazie agli ulivi forti e resistenti e alle nuvole che si aprono alla luce, balsamo per le sue ferite.
Per Martine Voyeux, francese, le cui immagini sono passioni, emozioni che raccontano la mitologia dei luoghi. Inusuale il taglio delle foto, originali le inquadrature a tal punto che a volte l’effetto è di disorientamento. La quotidiana visione delle cose si ribalta, il frammento diventa significante, il primo piano si sfoca, si esalta ciò che è nascosto. Lontano. Un mendicante accoccolato in un angolo sparisce quasi dietro i gradini e le caviglie di una signora di cui ignoriamo tutto: viso e mani sono tagliate, fuori inquadratura. Ma le scarpe bianche segnano un momento di pausa alla fine delle scale, una pausa per lo sguardo che riprende a vagare inquieto, fino a fermarsi sull’essere misterioso che tende la mano.
Il Mediterraneo è per molti artisti un Leitmotiv quasi naturale. L’identità millenaria del femminile si mescola a quella del Sud. I volti tagliati, le figure indistinguibili sedute sui marciapiedi di strade dalle linee discendenti, scivolano via, ombre di destini che passano senza lasciare traccia.
Paolo Pellegrin ci costringe a confrontarci con il dolore della guerra. È membro dell’agenzia Magnum. Premiato come fotografo dell’anno, riceve la medaglia di eccellenza dalla Leica, la medaglia d’oro dal premio Robert Capa e il W. Eugene Smith Grant per la fotografia umanitaria. Se si scorre il suo curriculum, dal 1995 al 2008 ha ricevuto ben 24 premi, di cui 8 sono World Press Photo. Le gigantografie in bianco e nero esposte al castello ducale sono tra le più impressionanti dell’intera mostra. Sono scene di guerra, bambini con le armi in pugno, giovani uomini dal viso nascosto dentro passamontagna, elicotteri che atterrano nella nebbia. Foto da un pianeta sconvolto, immerso nelle ombre della distruzione.
Il brasiliano Flavio Oliviera denuncia le misere condizioni di vita nelle favelas. I suoi bambini si aggrappano a steccati di legno come prigionieri che chiedono di uscire; donne incinte restano immobili accanto a baracche precarie e spazzature definitive; neonati si attaccano al seno della madre mentre noi intuiamo appena il contesto di degrado che li circonda e che ne segnerà il destino.
Claude Nori cura un intero settore dedicato alla mediterraneità e alla bellezza delle sue donne attraverso le opere di venticinque autori. Ricordiamo le teste infiorate di Eduard Boubat, le ombre proiettate su bianche pareti dalla luce lunare nella visione di Bernard Plossu. Forti i contrasti in questa apologia della femminilità estrema: Inge Morath ha ripreso una vecchia vestita di nero che “posa” nascondendosi con dei giornali; Jean Dieuzaide propone ragazze che sfidano il freddo e il vento immergendo le gambe nella schiuma del mare, le giacche pesanti ancora addosso. E via via, fino al grandissimo Cartier Bresson.
Carmelo Bongiorno vuole superare limiti e confini noti. «Altri orizzonti» è il titolo della sua mostra, una carrellata di immagini che spazzano via ogni idea di matericità del visibile. Case dai contorni immaginari, salite di un bianco accecante in un mondo oscurato, percorse da lontani passanti riflessi nella pioggia.
Carmelo Nicosia, catanese, laureato in chimica farmaceutica, fotografa aeroplani con la passione di un bambino che rincorre memorie di carta. «Ali 2008» raccoglie fotografie oniriche, in cui lo spazio e la luce sono spezzati dalla presenza ingombrante o leggera di ali in volo. Nicosia è uno degli autori più citati nel volume di Walter Guadagnini dedicato alla Storia della fotografia (Zanichelli). Ha partecipato a numerose rassegne. Nel 1995 ha rappresentato l’Italia al Gran Prix della Ville di Vevey, la Presidenza della Repubblica lo selezione per rappresentare con le sue immagini la Costituzione. Lavora nel progetto «Ultimo Sole»: una riflessione multimediale sui temi della percezione, dell’identità e della visione.
Emiliano Mancuso, romano, filosofo spezializzato in estetica, entra nell’agenzia Grazia Neri nel 2002 e lavora presso i più importanti magazines del mondo. A Corigliano espone «Terre di Sud», immagini urbane ma anche sguardi di uomini e donne persi nelle geometrie cittadine o in un contesto familiare e quotidiano divenuto inquietante. Immagini – testimonianza di come sia difficile vivere in un contesto in cui la crescita e l’involuzione sociale sono andate di pari passo.
Marina Misiti, antropologa e giornalista, ha creato delle mappe urbane personali fotografando architetture povere da cui emergono «emozioni, incontri, stili di vita e pensiero nomade». Sono «cartografie dei sentimenti» che reinterpretano lo spazio delle periferie umanizzandolo.
Tra i fotografi calabresi alcune eccellenze: Francesco Paolo Lavriani e Angelo Maggio, con «Feste e tradizioni nel Mezzogiorno» prediligono gli aspetti antropologici delle nostre comunità; ancora Giorgio Tricarico con «Salto dal faro», Gaetano Gianzi con le barche sulla spiaggia di Corigliano e Luca Policastri con le sue donne dai seni feriti che gocciano sangue… o cioccolata?
I culti, la morte, la festa, il ballo, le processioni, la sopravvivenza dell’arcaico e una spesso male intesa modernità scandiscono i reportage sulla Calabria. Come scrive Antonella Pierno, docente di fotografia presso l’Accademia delle Belle Arti di Milano, «il fascino del Sud è proprio in questa contraddizione continua, che ci porta dalla sopravvivenza alla gioia, dalla morte alla danza, e alla vita ancora per poi ricominciare ad essere».